domenica 18 novembre 2012

Sangue Ossa e Burro. L'educazione involontaria di uno Chef. (GrandeGabrielle!!)

Non sarà stato facile, per Anthony Bourdain. Ma l’autore di «Kitchen confidential» ha ammesso: «È semplicemente la migliore autobiografia di uno chef che sia mai stata scritta». Compresa la sua, dunque. Gabrielle Hamilton incassa, e ringrazia.
Per la 45enne chef di Prune, bistrot-ristorante da 30 posti nell’East Village, a New York, è un periodo d’oro («Mi chiedo solo quanto durerà…»). Merito della sua cucina. Ma soprattutto del suo libro di memorie, Blood, Bones & Butter (Random House), che in Italia esce il 14 novembre per Bompiani, con il titolo Sangue, Ossa e Burro. E per il quale si è beccata i complimenti anche della temutissima critica del New York Times Michiko Kakutani. È stato scritto in 5 anni, dopo aver provato a farne uno di saggi culinari: «Ma poi la mia editor mi disse: “Cosa cerchi di nascondere?”. Sicché mi sono detta: ok, meglio parlare della mia vita». E così è nata questa autobiografia: l’infanzia in Pennsylvania con una madre che le ha insegnato a cucinare di tutto (dal midollo all’agnello arrosto con prugne selvatiche), l’adolescenza travagliata suggellata dal divorzio improvviso dei genitori, il ritrovarsi lavapiatti a 12 anni. E ancora, l’arrivo a New York, l’università, i lavori nei ristoranti per pagarsi gli studi, il catering.
Infine, nel 1999, la decisione di aprire Prune (che era il suo soprannome da bambina), sapendo che avrebbe portato lì una sola cosa: «La cucina di casa mia, dell’infanzia. Zucchine in agrodolce con menta fresca e chili, sandwich di uova, scaloppine di maiale, cosce di coniglio brasate, panini al burro e allo zucchero, dodici diversi tipi di Bloody Mary, niente mousse complicate, Gin e Martini perfetti, e sempre un cd dei Velvet Underground pronto nello stereo… Per le buone forchette, non per i gourmands».
Con una prosa dalla sincerità disarmante, G. H. incarna sentimenti diversi: materna, poetica, volgare, provocatoria, passionale. Come il suo menu da Prune:
«Volevo il ristorante dove la gente mangiasse le cose di casa, però realizzate in modo perfetto». Non ha letto Il dilemma dell’Onnivoro di Michael Pollan, ma Hamilton la pensa come lui: “Le persone hanno smarrito la capacità di decidere da soli cosa vogliono mangiare”. Sarà per questo che è da sempre allergica allo chef celebrity: “Oggi si diventa noti senza alcun merito”. Infatti ha deciso di non fare tv: “Non mi interessa essere il prossimo Iron Chef”. Altra cosa inusuale, lei cucina ancora da Prune. E ha idee precise: “Non ho problemi ad ammettere che la maionese Hellman’s sia ottima o che se l’insalata biologica è mezza appassita è un insulto servirla. Sono pragmatica, non feticizzo il cibo”
Si fregia dello status di “lesbica onoraria per la vita”, però si è sposata anni fa con un medico italiano, dal quale si è separata ma ha avuto due bambini, Marco e Leone. Ha scritto nel libro lapidaria: “Un tempo ho posseduto anche un marito”.
Guai a chiederle del perché siano poche le donne al top della ristorazione: “Sì, gli chef uomini sono la maggioranza, ma se vuoi puoi benissimo farcela, non vedo preclusioni. Il ristorante ha le stesse dinamiche di una famiglia. Certo, se hai figli è dura”.
Eppure con la chef Angela Hartnett hanno inventato “Girls Night Out”, la serata delle donne cuoche che si tiene a Londra. Scrive nel suo libro: “Da Prune amiamo le donne, ma come chiunque sappia lavorare bene. Se lavori da noi ti occupi della carne o del pesce come il tizio accanto a te. Non vieni confinata nella postazione insalata o in pasticceria…Ma la politica dell’identità non ha mai retto fino in fondo per me….Mi viene l’orticaria quando sento cose tipo: le donne sono meglio degli uomini”. E adesso G. H., che sarà a Milano il 18 novembre per presentare il suo libro a Book City, sta già pensando al successivo, questa volta di ricette: “Lo stile? Come quando indichi a un amico la strada di casa tua”.

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