mercoledì 22 maggio 2013

Il caffè più forte del mondo



Una ditta di New York ha creato il caffè a più alto contenuto di caffeina: si chiama Death Wish Coffee, e contiene circa il doppio del normale contenuto di caffeina rispetto ad un normale caffè (americano, che però in realtà contiene più caffeina di un espresso, se non altro perché le dosi sono diverse).
L’inventore della miscela si chiama Mike Brown, barista della grande mela che si era stancato di dover spiegare che il colore più nero ed il gusto più forte non indicano sempre automaticamente una maggiore quantità di caffeina.
“Dopo molte prove ed errori ho trovato la miscela giusta, di chicchi e tostatura, che fa ora di ‘Death Wish’ il caffè più forte del mondo. Il processo è segreto, perché abbiamo inventato qualcosa di rivoluzionario e non vogliamo che ce lo rubino”.
Il contenuto di caffeina di una tazza preparata con questa miscela dovrebbe essere molto vicino al limite massimo giornaliero consigliato dai medici: meglio dunque non esagerare nelle dosi...

venerdì 12 aprile 2013

Venere: il Vino!


La parola vino è antichissima e gli etimologi discutono se farla derivare da una radice del sanscrito “venas” (piacevole) da cui Venus (Venere), oppure dall’antico ebraico “iin” che attraverso il greco “oinos”, sarebbe arrivata ai latini. Altri invece sostengono che da una radice sanscrita “vi” (attorcigliarsi) verrebbe fuori la parola vino, cioè il frutto della pianta che si attorciglia.
Già seimila anni fa, i Sumeri simboleggiavano con una foglia di vite l’esistenza umana e, sui bassorilievi assiri con scene di banchetto, sono rappresentati schiavi che attingono il vino da grandi crateri e lo servono ai commensali in coppe ricolme.
Anche gli Ebrei dell’Antico Testamento, che attribuivano a Noè la piantagione della prima vigna, consideravano la vite “ uno dei beni più preziosi dell’uomo” (I Re) ed esaltavano il vino che “rallegra il cuore del mortale” (Salmi).
La pratica della viticoltura vanta origini antichissime, come è testimoniato da non pochi documenti figurati; fra i tanti è degna di nota la pittura di una tomba tebana della XVII dinastia (15552-1306 a.C.), dove sono rappresentati due contadini che colgono grappoli d’uva da una pergola, circostanza interessante da cui si deduce che in Egitto, gia nel II millennio a.C. era diffuso il sistema di coltivazione ‘a pergola’. Altri quattro lavoranti procedono alla pigiatura delle uve in un grande tino ed un loro compagno, chino sotto le cannelle, raccoglie nei recipienti il mosto appena spremuto. In alto si nota una ordinata fila di anfore nelle quali, una volta completata la fermentazione, veniva risposto il vino. Chi faceva vino apponeva anche un sigillo con l'anno della vendemmia; prima prova di una rudimentale pratica di invecchiamento.
Con l'emergere di altre civiltà, la viticoltura e la vinificazione si affermarono più a nord, lungo le coste del Mediterraneo. Creta e Micene dominarono il mondo culturale ed entrambe erano civiltà commercianti che riconobbero il grande valore del vino.
L’esistenza di Ciro, il grande condottiero persiano, venne segnata dal vino, che identificò uno dei tesori per i quali i suoi uomini si convinsero ad invadere la Media ricca di campi e vigneti.
Attraverso i Greci e i Fenici il vino entrò nella civiltà occidentale. Nel mondo greco il vino era ritenuto un dono degli dei e tutti i miti sono concordi nell’attribuire a Dionisio, dio del vino, il più giovane figlio immortale di Zeus, l’introduzione della coltura della vite tra gli uomini.
I temi connessi al vino sono i protagonisti assoluti della pittura vascolare greca, ed in particolare ebbero grande diffusione le raffigurazioni di Dioniso seguito di satiri e menadi mentre vendemmiano, riempiendo i canestri di grappoli d’uva, o nelle altre fasi del trattamento dell’uva.
Anche i poemi omerici sono ricchi di citazioni a prova della grande importanza che il vino rivestiva nella cultura ellenica:
«a Polifemo viene fatto bere puro un vino che usualmente era diluito con 16 parti d’acqua.»
A Itaca, Ulisse, nella sala del tesoro conservava non solo oro, bronzi, tessuti, olio, ma anche «vasi di vino vecchio, dolce da bere».
Moltissimi erano i vini prodotti nel bacino del Mediterraneo. La qualità dipendeva dall’esposizione del vigneto, dalle caratteristiche delle piante e dai metodi di coltivazione: sappiamo ad esempio che le vigne basse davano vini mediocri e che, invece, i grandi vini italici erano generalmente ricavati da viti in arbusto. Era inoltre radicato anche l’allevamento della vite con ceppo basso, senza sostegno o con sostegno a paletto; così era la vigna raffigurata sullo scudo di Achille:
“…una vigna stracarica di grappoli, bella, d’oro: era impalata da cima a fondo di pali d’argento… un solo sentiero vi conduceva per cui passavano i coglitori a vendemmiare la vigna;…in canestri intrecciati portavano il dolce frutto” (Hom. Il.XVIII, 561-569).
Per quanto riguarda la vinificazione è testimoniato l’uso di una tecnica molto simile a quella utilizzata fino quasi ai nostri giorni: essa prevedeva la raccolta e la pigiatura dei grappoli in larghi bacini, la torchiatura dei raspi e la fermentazione del mosto in recipienti lasciati aperti fino al completo esaurimento del processo. A differenza degli lavori agricoli, la vendemmia era un’attività festosa, che non apparteneva propriamente alla sfera del lavoro quotidiano, ma trasformava la condizione umana e la poneva in contatto con il divino.

lunedì 8 aprile 2013

Cinema e Cibo: in Africa alla scoperta di tradizioni e gusti diversi.

                
Martedi 23 aprile ci sarà il secondo appuntamento di Diritti e Culture, percorso creato in collaborazione con la L.I.D.U Lega Italiana dei Diritti dell'Uomo, che vedrà la proiezione del film Mooladé, accompagnata dalla degustazione di cibi tipici di diversi paesi africani.
Mooladé è un film africano che combatte la pratica dell’escissione: essa, praticata in Senegal e in altri stati dell’Africa nera, non è da confondere con la più diffusa pratica dell’infibulazione: il termine "infibulazione" deriva dal latino "fibula" che significa spilla. Definisce una procedura mutilativa nella quale la vagina è parzialmente chiusa approssimativamente all'altezza della metà delle grandi labbra attraverso una sutura che lascia solo un piccolo passaggio per l'urina e il sangue mestruale. La rimozione totale del clitoride, alla base dell’escissione, nell’infibulazione è facoltativa. Secondo l'Organizzazione mondiale della salute (Oms), le mutilazioni dei genitali colpirebbero all'incirca 130 milioni di donne e di bambine in 28 paesi dell'Africa e del Medioriente. Lungi dal diminuire, questo numero aumenterebbe di circa due milioni all'anno. Mooladè è una co-produzione di Francia, Marocco, Burkina-Faso, Tunisia e Senegal. Recitato da attori provenienti da Senegal, Mali e Costa d’Avorio, è il pilastro centrale della trilogia “eroismo al quotidiano”, cominciata con Faat Kiné1 e ancora da terminare con La confraternita dei topi (titolo provvisorio), film sulla corruzione, ambientato questa volta in un contesto cittadino. Girato in pellicola 35mm nel 2003 a Djerisso, un piccolo villaggio di campagna del Burkina Faso (“Oggi le grandi città africane non sono che dei prolungamenti dell’Europa. Ecco perché ho girato in un villaggio”- dice l’autore2), dura 117 minuti. Nove mesi sono occorsi per il montaggio. “Sono nato in campagna, a Ziguinchor - racconta Sembène -, nella mia infanzia l’escissione era considerata normale. L’origine di questa pratica si perde nella notte dei tempi. Erodoto ne parla. Allo stesso modo Abramo, nostro antenato comune. I conservatori pensano che ciò renda la donna più fedele. I musulmani trovano la giustificazione del rito in un editto del Profeta riportato cento anni dopo la sua morte. Ma se noi facciamo uno studio sull’escissione delle donne, dobbiamo constatare che non esiste in nessun posto al di fuori del continente africano. La religione musulmana si è espansa, senza per altro conservare questa pratica. D’altra parte, questo rituale non è scritto nei Cinque Pilastri del Corano”. Non è facile affrontare certi argomenti tabù all’interno di paesi musulmani. In passato solo Cheick Oumar Sissoko, con Finzan (Rivolta, 1989), aveva trattato il tema, attraverso la storia delle due protagoniste: Nya, una giovane vedova che viene obbligata a sposare il cognato, e una studentessa che, tornata al paese natale, viene evirata con la forza. “I riti di mutilazione genitale femminile sono ancora praticati in 38 dei 54 stati membri dell’Unione Africana. E’un attentato alla dignità e all’integrità delle donne. Bisogna abolire questa eredità di un’epoca che non c’è più”. Pare che sul set Sembène abbia avuto alcuni problemi con gli attori, dal momento che alcuni non erano d’accordo con il messaggio del film. Tra di loro proprio Fatoumata Coulibaly, attrice maliana che interpreta Collé Ardo. Sembène si difende dicendo che “in Mali, non c’è una legge contro l’escissione, contrariamente al Senegal e al Burkina Faso. Lei (l’attrice n.d.r.) dice che in Mali la questione non viene trattata dai media. Per questo ci andrò a presentare il film”.

In Francia ha avuto una buona distribuzione e ha riscosso un significativo successo al botteghino, conseguenza dello storico rapporto di collaborazione tra il mondo transalpino e quello africano. Ogni scena è sottomessa a una doppia tensione: tra le esigenze della Legge, che assegna una funzione per ogni membro dello scacchiere della comunità (la Donna, la Sposa), e le intenzioni particolari dei singoli individui. Sembène conferma questa tesi: “Non ho voluto mettere la pratica della mutilazione al centro della storia, bensì mi sono concentrato sulle risposte che gli uomini e le donne del villaggio danno a questa pratica. Ho voluto mettere in luce le contraddizioni che emergono da due valori: il moolaadé, che è il diritto di asilo e di protezione, e la richiesta della società che le donne siano sottoposte all’escissione”8. Un conflitto dunque all’interno della tradizione, con due leggi inviolabili ma allo stesso tempo inconciliabili tra loro. I personaggi principali sono descritti con una profondità fuori dal comune. Collé si ribella contro la regola collettiva. E’una lotta solitaria, ostinata, completamente priva di retorica drammatica. Sembène sa che il cinema militante oggi deve essere meno enfatico per convincere. “Gli uomini non parlano dell’escissione. Gli africani sono molto pudici – anche quando sono nudi – nel modo di guardare. L’impudenza sta in ciò che l’orecchio intende. Quando Collé Ardo si rivolge agli uomini, fa loro comprendere che “è ora o non sarà mai più”. Subisce, fino al momento in cui decide che la situazione deve cambiare”9. Collé non agisce mai; reagisce agli eventi. Ma ogni volta che reagisce, fa avanzare altri personaggi. Sul piano individuale, è la sola donna a venir fustigata in un punto del film. Anche in quel caso gli altri personaggi reagiscono con lei. Collé è una Faat Kiné di campagna: “Ho deliberatamente preso la decisione di dare a Collé e Faat Kiné la stessa età. Solo che la prima agisce in un’ambientazione rurale, tradizionale, mentre la seconda in un contesto urbano”10. I due film sono simili anche per il fatto che Moolaadè, nonostante il tema grave e a tratti tragico, prende a tratti toni da commedia sociale, alternanza grottesca che ritroviamo spesso, sin dai tempi di Le Mandat, nella carriera dell’autore. Le eviratrici sono una “truppa di solenni arpie, guardiane della tradizione, che minacciano della loro vendetta coloro che osano romperla”11, applicatrici ferree delle direttive del consiglio dei notabili. Uno dei personaggi più interessanti, per la sua complessità, è Mercenaire.
Sembène ne fa un ritratto ricco di sfumature e non privo di ambiguità. All’inizio del film sembra il tipico commerciante venuto dalla capitale per approfittare dell’ignoranza della popolazione rurale. Ad esempio vende pane duro vecchio di alcuni giorni, comprato per pochi spiccioli in città a un prezzo quasi eguale al pane fresco di Dakar. Smascherato dal promesso sposo di Amsatou, unico personaggio che ha vissuto fuori dal villaggio (a Parigi), si difende dicendo che il pane duro costa meno del riso ed è più nutriente. Durante la discussione, prima racconta l’origine del suo nome: casco blu dell’Onu per molti anni, scopre e denuncia un caso di corruzione di alcuni ufficiali. Per questo motivo viene radiato dall’organizzazione e false testimonianze gli attribuiscono l’appellativo di “mercenario”. Continuando il dialogo con il promesso sposo lo accusa di essere un pedofilo (“Bisogna dire agli africani che dei matrimoni con delle ragazze così giovani sono nell’ordine della pedofilia!”12) per il fatto che il padre, rifiutando Amsatou perchè bilakorò (non mutilata), lo vuole sposare con una bambina di 11 anni. Dunque Mercenaire è un personaggio onesto, che però per guadagnare da vivere gonfia i prezzi dei suoi prodotti. Questa complessità oscillante tra bene e male finisce nella scena epica della violenza su Collé da parte del marito nella piazza pubblica. Qui il commerciante mostra il suo spirito rivoluzionario interrompendo con la forza le violente frustate del marito. L’imam non gli perdonerà l’intromissione e sentenzierà la sua condanna a morte, eseguita in piena notte da un gruppo di fedeli che inseguono con fiaccole infuocate il traballante carretto del povero Mercenaire in fuga. Il villaggio stesso è un elemento simbolico, “un set chiuso ad ogni presenza esterna (il non riambientamento sentimentale del ragazzo giunto da Parigi) e ad ogni forma di progresso (le radio che vengono ammassate e poi bruciate), luogo palcoscenico dove tra entrate e uscite di campo i personaggi diventano attori, vestono i costumi di scena ed entrano/escono dal loro ruolo”. La vittoria finale delle donne, cioè la fine dell’escissione, è rappresentata dalla caduta del coltello delle exciseuses per mano di Collé Ardo. Ci sono poi molti richiami all’ignoranza della popolazione di villaggio, dovuta all’isolamento ma anche ai rappresentanti del potere religioso conservatore. Ad esempio è emblematica l’inquadratura di Collé che passa la lingua dentro una pila per vedere se è carica. In Mooladé infatti svariati elementi mostrano il rapporto tra la comunità di villaggio e la modernità: le radio, attraverso le quali il radiogiornale lancia un messaggio contro l’eccisione, vengono bandite dal villaggio. L’autorità musulmana si accanisce contro ogni strumento della tecnologia, per paura che un utilizzo cosciente da parte delle donne rappresenti un ostacolo al potere tradizionale. L’ultima immagine del film è un’antenna, metafora di un mondo globale portatore di progresso. E’interessante notare che Sembène, al contrario dei cineasti engagés europei o americani, pone in chiave positiva i media, in particolare la radio, smarcandosi completamente dalla tradizionale antipatia del cinema militante nei confronti del potere omologante del sistema fondato sul controllo mediatico. Ancora una volta Sembène Ousmane si smarca dai clichés per regalarci, nell’era della fine delle ideologie, un moderno cinema politico che, non senza compiacimento, possiamo definire rivoluzionario.

domenica 7 aprile 2013

Chi è Antonino Cannavacciuolo, lo chef di Cucine da Incubo Italia?

Torino-Milano direzione Hotel Villa Crespi. Prenotazione ore 13.00. Come saranno i piatti dello Chef Cannavacciuolo lo sapremo fra qualche ora!! Ma per arrivare preparati al tavolo scopriamo qualcosa di più su di Lui.
Dopo Carlo Cracco e Bruno Barbieri si affaccia nell’empireo degli chef tv un altro nome dell’alta gastronomia italiana: si tratta di Antonino Cannavacciuolo, scelto da Fox ed Endemol per la versione italiana di Cucine da Incubo che andrà in onda su FoxLife nella primavera 2013. A lui l’arduo compito di ‘prendere’ il posto di Gordon Ramsay. E’ il caso di saperne qualcosa in più di lui: diciamo che il nome non tradisce, le sue origini sono campane, ma ora è a capo di un resort sul Lago d’Orta. Le vie dei fornelli sono infinite.

Antonino Cannavacciuolo nasce a Vico Equense (NA) nel 1975 e porta con sé la sua terra non solo nel nome ma nell’uso della mozzarella di bufala e della pasta di Gragnano, due capisaldi riconosciuti della sua cucina. Determinazione e passione sono forse due delle parole con le quali si può sintetizzare la sua carriera, passata dalla gavetta ‘locale’ a stage di tutto rispetto che nel 2000 lo hanno visto in Francia all’Auberge de l’Ille, 3 stelle Michelin a Illerhausen e al Buerehiesel, altro 3 stelle Michelin che ha segnato la sua formazione.
Ora di stelle ne ha due per il suo Ristorante Hotel Villa Crespi ad Orta San Giulio, di cui è patron con la moglie piemontese: e il mix tra ‘regno borbonico e sabaudo’ sembra una delle cifre della cucina di Cannavacciuolo, ora pronto a portare il suo stile nelle cucine ’sgrarrupate’ d’Italia.
Ascolta consigli, accetta le critiche e non lascia nulla al caso, la cosa più importante per lui è che il messaggio dei suoi piatti venga compreso. Le presentazioni delle sue creazioni, sono il suo modo di comunicare quello che sente, la sua interiorità, la sua arte.
Chi con una canzone, chi con una poesia, chi con film…lo Chef Antonino Cannavacciuolo è un artista che coinvolge gli spettatori con i colori, gli accostamenti ed i sapori, si legge sempre nella sua presentazione. Beh, vedremo come riuscirà a comunicare in tv.

martedì 2 aprile 2013

10 ricette per riciclare colomba e uovo di Pasqua

Nel bagaglio di problemi irrisolvibili, come se correre da una parte all’altra per seguire il rituale mangereccio di Pasqua non fosse abbastanza, ci metto la colomba e le uova di cioccolato, o meglio, le loro macerie, seminate per casa. Irrisolvibili? Fossero questi i problemi, io riciclo implacabilmente, sono una macchina da guerra antispreco. Per riciclare avanzi di cioccolato e ruderi di colomba ho già pronte, e le condivido con voi, dieci ricette dieci.

UOVA DI CIOCCOLATO.
1. I gusci delle uova di cioccolato si possono usare come contenitori per mousse, tiramisù, bavaresi o qualunque altro dolce al cucchiaio. Da una presentazione così insolita non può che avvantaggiarsi.
2. Tritati e fusi a bagnomaria con poca panna fresca da montare, gli avanzi di cioccolato diventano una salsa peccaminosa per farcire le crepes o da colare calda sul gelato, sulle pere cotte o (goduria) su una banana tagliata a rondelle.
3. E se invece ne facessimo una crema spalmabile alle nocciole stile Nutella?
La ricetta che uso è questa:
200 gr di nocciole tostate e spellate
150 gr di cioccolato fondente tritato
100 gr di zucchero di canna
100 ml di latte intero
100 gr di burro morbido

Metto nocciole e zucchero nel mixer, il recipiente del frullatore per mescolare le bevande, lo aziono per ottenere un composto finissimo. Aggiungo tutti gli altri ingredienti e trasferisco in un pentolino adatto al bagnomaria. Faccio cuocere per 10 minuti mescolando con cura e metto in un vasetto. Questa crema si conserva in frigo qualche giorno, ma a casa mia non sopravvive oltre il terzo.
4. Altra possibilità: fondere tutti gli avanzi per formare cioccolatini, praline e tartufi. Servono una buona manualità e un po’ di esperienza col temperaggio del cioccolato oltre agli stampini e un paio d’ore libere. L’alternativa rapida viene da un vecchio libro americano, il fudge: basta sciogliere a bagnomaria 200 gr di cioccolato fondente, aggiungere 170 gr di latte condensato e 30 gr di burro. Si versa tutto in uno stampo rettangolare (meglio se in silicone) da mettere in frigo per 3 ore a solidificare per poi tagliarlo a quadratini. Try to believe.
5. Non dimentichiamo la soluzione più semplice per riutilizzare gli avanzi post Pasqua: le chips di cioccolato. Si trita grossolanamente il cioccolato conservando le chips in un contenitore ermetico, pronte per usi vari ed eventuali. Ancora, si possono fare dei biscotti con gocce di cioccolato con procedura “anti-stupido”:
servono mezz’ora di tempo e questi ingredienti misurati a tazze:
2 tazze di farina + 1 cucchiaio
1 tazza di zucchero di canna
1 tazza di burro morbido
1 tazza di chips di cioccolato
1 pizzico di sale

Si mescola tutto per formare un impasto sodo da sudividere sulla placca del forno in mucchietti grossi come una noce, avendo cura di appiattirli un po’ con una forchetta prima di infornarli. 15-20 minuti a 180° gradi e devo ancora trovare sembianti umani che non gradiscano.

COLOMBA.
1. Il bread and butter pudding è la prima cosa cui ho pensato. Un dolce inglese di poche pretese che si prepara con fette di pane imburrate e spalmate con marmellata di arance. Si dispongono in una teglia un po’ sovrapposte versando sopra un miscuglio di uova frullate (4), zucchero (100 gr, ma la colomba è già molto dolce, meglio dimezzare), latte (1/2 lt) e panna (250 gr). I canditi non sono optional, ma nella colomba ci sono già. Da mettere in forno a 180° per il tempo necessario al rassodamento e alla formazione della crosticina. Buonissimo freddo.
2. Come si fa a non sovrapporre strati di colomba e di gelato per creare una facilissima torta? Come salsa torna utile quella fatta con i gusci di cioccolato riciclati vista sopra.
3. Se le macerie di colomba sono esigue e malandate non resta che sbriciolarle con le mani e usarli per un crumble: sbuccio le mele dividendole in spicchi quindi le dispongo ordinatamente in una pirofila. Dopo averle spolverate con zucchero e cannella, le copro con le briciole di colomba e le metto in forno. Tanto semplici quanto buone.
4. Una ricetta di recupero che faccio anche col panettone, col pandoro e con le torte di pan di spagna mal riuscite (non ditemi che le vostre torte lievitano sempre perfettamente) è un plum-cake che riutilizza anche gli avanzi di cioccolato. L’ho scoperto nel blog Pain et chocolat.
400 gr di colomba
4 uova
400 ml di latte fresco
2 cucc.ni di lievito per dolci
60 gr di farina
Avanzi di uovo di cioccolato

Si sbattono uova, latte lievito e farina, si aggiunge la colomba a dadini lasciando riposare per 15 minuti. Versato metà del composto in uno stampo imburrato, si forma uno strato di cioccolato e si copre con l’altra metà. In forno a 170° per mezz’ora, poi si cosparge di zucchero a velo per arrivare a una torta nuova dall’avanzo di una vecchia.
5. L’ultima idea si chiama cake pop, chiaramente una contrazione di cake e lolly pop. Bisogna mettere la colomba sugli stecchini e trasformarla in lecca lecca o colomba da passeggio. Se digitate “cake pops” su Google si apre un mondo curioso anche se un po’ delirante. Non può mancare la Bimby-ricetta, ettepareva.
Concludo trasferendovi un avvertimento: la mania del riciclo, che è comunque cosa buona e giusta, si è talmente impossessata di me, che spesso abbondo con la spesa per avere più avanzi. E allora mi chiedo: dove sta il risparmio?

domenica 24 marzo 2013

Il limone ”Albero della vita”


La pianta del limone è un meraviglioso albero che si distingue dagli altri per la sua generosità.
Secondo la mitologia greca la dea Terra (Gea) per onorare le nozze tra Era e Zeus produsse degli alberelli rigogliosi dai Pomi aurei, emblema di fecondità e amore. Un bene assai prezioso e da presevare. 
Giove, infatti, timoroso di un loro possibile furto, decise di custodirli in un meraviglioso giardino, sorvegliato dalle Esperidi.L’XIa fatica di Ercole fu proprio quella di dover rubare i preziosi pomi Simbolo del calore e del sole mediterraneo, il limone ha però origini asiatiche e precisamente proviene dall'Estremo Oriente (India e Cina) dove fu trovato allo stato spontaneo. Conosciuto in Cina, in India e nelle civiltà mesopotamiche per le sue proprietà antisettiche, antireumatiche e tonificanti e considerato sacro nei paesi islamici, veniva per lo più impiegato come antidoto contro i veleni, come astringente contro le forme dissenteriche ed emorragiche nonché per tenere lontano il demonio dalle case. Gli antichi Egizi lo utilizzavano per imbalsamare le mummie e spesso lo riponevano nelle tombe con datteri e fichi. I Greci lo importavano dalla Media e lo utilizzavano a scopo ornamentale e per profumare la biancheria e difenderla dalle tarme. Le prime chiare descrizioni dell'impiego del limone a scopo terapeutico risalgono alle opere di Teofrasto, l'allievo di Aristotele, che viene considerato il fondatore della fitoterapia. Era costume degli Ellenici coltivare gli alberi di limone vicino agli ulivi per preservare questi ultimi da attacchi parassitari. Anche Plinio parlò del limone nei suoi trattati e lo prescrisse, tra l'altro, come antidoto verso diversi veleni. E’certo, dunque, che il limone fosse trapiantato ed acclimatato in Campania nel primo secolo dopo Cristo, sia pure come frutto raro. 
 Tra i Romani pare che l'imperatore Nerone ne fosse un assiduo consumatore, ossessionato come era dal presentimento di un suo possibile avvelenamento. 

In Occidente il limone si diffuse intorno all'anno 1000 grazie agli Arabi che lo portarono in Sicilia. 
La prima descrizione del limone, introdotto dall'India due secoli prima, apparve infatti in scritti arabi del dodicesimo secolo. Le origini del nome derivano dal persiano (لیمو Limu). In Europa la prima vera coltivazione di limoni venne impiantata a Genova a metà del quindicesimo secolo. 
Nel 1494 i limoni comparvero nelle Azzorre, mentre in America il limone e gli altri agrumi furono portati dagli Spagnoli e dai missionari dopo la scoperta di Cristoforo Colombo. Nel XV secolo si scoprì inoltre che il succo di limone curava e preveniva lo scorbuto, malattia diffusa tra i marinai che si cibavano per lunghi periodi solamente con farine, cibi conservati e altri alimenti privi di vitamina C
Con il tempo si appurò che lo scorbuto dipendeva dalla carenza massiccia e prolungata di vitamina C (acido ascorbico) presente nella frutta e nelle verdure fresche e ciò spiega anche perché si iniziò ad utilizzare i limoni in grande quantità a bordo delle navi. Fu tramite i viaggi per mare che il frutto venne introdotto anche nei paesi del Nord Europa. Le navi che arrivavano nel Mediterraneo si rifornivano di limoni, pagandoli con merci pregiate o addirittura in oro. I frutti acquistati venivano rivenduti a prezzi altissimi nei paesi del Nord, dove il limone era considerato un prodotto di gran lusso, ma sempre a prevalente scopo ornamentale e terapeutico. Solamente nel XVIII secolo il limone cominciò ad essere usato in cucina per aromatizzare cibi e bevande. 

Le leggende raccontano di frutti dalle proprietà divine: dai poteri antivenefici. 
Per questo venivano consumati in segreto dai condannati a morte per salvarsi dai morsi velenosi di terribili aspidi. Il poeta Virgilio narra della magica mela della Media che salvava dagli avvelenamenti di matrigne malvagie.

I Romani avevano conosciuto il limone durante la loro espansione in Persia, ma ne fecero uso solo dopo la sua diffusione in Spagna e il Italia meridionale ad opera degli Arabi. Ancora oggi il suo nome scientifico Citrus Medica o Agrume della Media (antico nome della Persia) ricorda il suo luogo d'origine: l'attuale Iran.
A partire dal X secolo d.C. si utilizzò frequentemente come medicinale: contro la febbre, contro la nausea, contro le pestilenze e lo scorbuto, la malattia che colpiva i marinai. 
Infine la completa diffusione del frutto in Europa si deve ai Crociati che dall'Oriente lo importarono con il nome Limun.
Secondo antiche leggende, Giunone aveva portato in dote a Giove alcune piante dai cui rami pendevano frutti splendenti come l'oro. Giove li trasportò in un'isola del grande Oceano, nel magico giardino delle Ninfe Esperidi. Da cui il solare frutto degli agrumi prese nome Esperidio. Ercole riuscì ad entrare nel giardino e a donare agli uomini i frutti magici.
Le leggende raccontano di frutti dalle proprietà divine: dai poteri antivenefici. Per questo venivano consumati in segreto dai condannati a morte per salvarsi dai morsi velenosi di terribili aspidi. Il poeta Virgilio narra della magica mela della Media che salvava dagli avvelenamenti di matrigne malvagie.

I Romani avevano conosciuto il limone durante la loro espansione in Persia, ma ne fecero uso solo dopo la sua diffusione in Spagna e il Italia meridionale ad opera degli Arabi. Ancora oggi il suo nome scientifico Citrus Medica o Agrume della Media (antico nome della Persia) ricorda il suo luogo d'origine: l'attuale Iran.
A partire dal X secolo d.C. si utilizzò frequentemente come medicinale: contro la febbre, contro la nausea, contro le pestilenze e lo scorbuto, la malattia che colpiva i marinai. Infine la completa diffusione del frutto in Europa si deve ai Crociati che dall'Oriente lo importarono con il nome Limun.
In Europa la prima vera coltivazione di limoni venne impiantata a Genova a metà del quindicesimo secolo. Nel 1494 i limoni comparvero nelle Azzorre, mentre in America il limone e gli altri agrumi furono portati dagli Spagnoli e dai missionari dopo la scoperta di Cristoforo Colombo.
Le leggende raccontano di frutti dalle proprietà divine: dai poteri antivenefici. Per questo venivano consumati in segreto dai condannati a morte per salvarsi dai morsi velenosi di terribili aspidi. Il poeta Virgilio narra della magica mela della Media che salvava dagli avvelenamenti di matrigne malvagie.
I Romani avevano conosciuto il limone durante la loro espansione in Persia, ma ne fecero uso solo dopo la sua diffusione in Spagna e il Italia meridionale ad opera degli Arabi. Ancora oggi il suo nome scientifico Citrus Medica o Agrume della Media (antico nome della Persia) ricorda il suo luogo d'origine: l'attuale Iran.
A partire dal X secolo d.C. si utilizzò frequentemente come medicinale: contro la febbre, contro la nausea, contro le pestilenze e lo scorbuto, la malattia che colpiva i marinai. Infine la completa diffusione del frutto in Europa si deve ai Crociati che dall'Oriente lo importarono con il nome Limun.
Secondo antiche leggende, Giunone aveva portato in dote a Giove alcune piante dai cui rami pendevano frutti splendenti come l'oro. Giove li trasportò in un'isola del grande Oceano, nel magico giardino delle Ninfe Esperidi. Da cui il solare frutto degli agrumi prese nome Esperidio. Ercole riuscì ad entrare nel giardino e a donare agli uomini i frutti magici.
Le leggende raccontano di frutti dalle proprietà divine: dai poteri antivenefici. Per questo venivano consumati in segreto dai condannati a morte per salvarsi dai morsi velenosi di terribili aspidi. Il poeta Virgilio narra della magica mela della Media che salvava dagli avvelenamenti di matrigne malvagie.

In Europa la prima vera coltivazione di limoni venne impiantata a Genova a metà del quindicesimo secolo. Nel 1494 i limoni comparvero nelle Azzorre, mentre in America il limone e gli altri agrumi furono portati dagli Spagnoli e dai missionari dopo la scoperta di Cristoforo Colombo.

A partire dal X secolo d.C. si utilizzò frequentemente come medicinale: contro la febbre, contro la nausea, contro le pestilenze e lo scorbuto, la malattia che colpiva i marinai. Infine la completa diffusione del frutto in Europa si deve ai Crociati che dall'Oriente lo importarono con il nome Limun.





Il limone è originario dell'Estremo Oriente (India e Cina) dove si trovò allo stato spontaneo. 
Si riteneva che gli antichi romani non conoscessero questo frutto, ma nel 1951 vi fu una scoperta archeologica decisiva: nel corso di scavi effettuati a Pompei venne alla luce una casa, denominata la Casa del frutteto, sulle cui pareti vi erano magnifici dipinti di piante tra le quali il limone. Siamo quindi sicuri che il limone, sia pure come frutto raro, era trapiantato ed acclimatato in Campania nel primo secolo dopo Cristo, se si considera che Pompei fu distrutta dall'eruzione del Vesuvio nell'anno 79 d.C. 
In America, invece, il limone e gli altri agrumi furono portati dagli spagnoli e dai missionari dopo la scoperta di Cristoforo Colombo. Il limone è una pianta che ha la proprietà di fiorire in continuazione e può, pertanto, portare contemporaneamente fiori, frutti immaturi e frutti maturi; e la produzione dei limoni si ha, così, in tutte le stagioni, salvo un rallentamento durante i mesi più freddi. Le prime chiare descrizioni dell'impiego del limone a scopo terapeutico risalgono alle opere di Teofrasto, l'allievo di Aristotele, che viene considerato il fondatore della fitoterapia. Anche Plinio parlò del limone nei suoi trattati e lo prescrisse, tra l'altro, come antidoto verso diversi veleni. Nel XV secolo si scoprì casualmente che il succo di limone curava e preveniva lo scorbuto, malattia diffusa tra i naviganti che si cibavano per lunghi periodi solamente con farine e alimenti conservati. Si iniziò così ad utilizzare i limoni in grande quantità a bordo delle navi; e tramite i viaggi per mare il frutto fu introdotto nei paesi del Nord Europa. Le navi che arrivavano nel Mediterraneo si rifornivano dei limoni pagandoli con merci pregiate o addirittura in oro; i frutti acquistati venivano rivenduti a prezzi altissimi nei paesi del Nord dove il limone era considerato un prodotto di gran lusso. Solamente in epoca recente (XVIII secolo) il limone comincia ad essere usato in cucina per aromatizzare alcuni cibi.
La prima descrizione del limone appare in epoca romana in alcuni dipinti pompeiani. Sembra che il primo agrume del mondo romano sia stato il cedro, ben noto tra i Romani come "pomo di Persia". È documentato che i Romani conoscevano già nel I secolo pure il limone e l'arancio amaro. Un'altra descrizione del limone, introdotto dall'India due secoli prima, appare in scritti arabi del XII secolo. Le origini del nome derivano dal persiano لیمو (līmū). In Europa la prima coltivazione è in Sicilia, dopo il X secolo e più tardi a Genova (a metà del XV secolo. Compaiono nelle Azzorre nello stesso periodo, nel 1494.
Secondo antiche leggende, Giunone aveva portato in dote a Giove alcune piante dai cui rami pendevano frutti splendenti come l'oro. Giove li trasportò in un'isola del grande Oceano, nel magico giardino delle Ninfe Esperidi. Da cui il solare frutto degli agrumi prese nome Esperidio. Ercole riuscì ad entrare nel giardino e a donare agli uomini i frutti magici.
Nel XV secolo si scoprì inoltre che il succo di limone curava e preveniva lo scorbuto, malattia diffusa tra i marinai che si cibavano per lunghi periodi solamente con farine, cibi conservati e altri alimenti privi di vitamina C.
Con il tempo si appurò che lo scorbuto dipendeva dalla carenza massiccia e prolungata di vitamina C (acido ascorbico) presente nella frutta e nelle verdure fresche e ciò spiega anche perché si iniziò ad utilizzare i limoni in grande quantità a bordo delle navi.
Fu tramite i viaggi per mare che il frutto venne introdotto anche nei paesi del Nord Europa. Le navi che arrivavano nel Mediterraneo si rifornivano di limoni, pagandoli con merci pregiate o addirittura in oro.
I frutti acquistati venivano rivenduti a prezzi altissimi nei paesi del Nord, dove il limone era considerato un prodotto di gran lusso, ma sempre a prevalente scopo ornamentale e terapeutico.
Solamente nel XVIII secolo il limone cominciò ad essere usato in cucina per aromatizzare cibi e bevande.  

venerdì 8 marzo 2013

Ma perché mangiamo?

Vi siete mai chiesti: "Perché mangiare"? La risposta più immediata è sicuramente: Per soddisfare un bisogno fisiologico! Ovviamente, il cibo è innanzitutto nutrimento per il nostro corpo, ci permette di crescere e diventare grandi, di avere energia necessaria per lavorare, studiare, giocare, fare sport, ecc. Ma, oltre a tutti questi fondamentali motivi, legati alla sopravvivenza fisica, non dobbiamo dimenticare che MANGIARE, per noi esseri umani, assume un altro importantissimo significato: Mangiare soddisfa un bisogno psicologico! Infatti, mangiare significa anche provare piacere per nuove sensazioni ed emozioni; provare gusti e sapori nuovi; ricordare attraverso il cibo esperienze significative; riconoscersi in un gruppo, ecc...
Dunque, il cibo, oltre che fonte di nutrimento, veicola innumerevoli altri significati:
- Cibo come tradizione. È nei piatti tipici e tradizionali che si conserva spesso una parte importante della cultura di un popolo, di una regione, che si tramandano vecchi saperi e valori.
- Cibo come amicizia. L'offerta di cibo è il primo gesto di amicizia, in ogni parte del mondo.
- Cibo come ritrovarsi. Per una famiglia spesso è il momento del pranzo, della cena, l'occasione per riunirsi e ritrovarsi insieme. Ed è in tavola che affiora sempre un po' di noi: i gesti della convivialità, i piccoli impacci, le ruvide cortesie, gli sbalzi di nervosismo, le storie individuali con i loro intrecci…
- Cibo come festa. Non si può pensare a nessuna occasione di festeggiamento, in tutti i luoghi e tempi, senza un ricco buffet o senza le portate più importanti.
- Cibo come approfondimento di un rapporto. A tavola, vuoi per un appuntamento di lavoro o di piacere, ci si lascia andare di più. E il tutto diventa un'occasione di comunicare, difficile da ricreare altrove.
- Cibo come piacere. Il piatto fumante davanti ai nostri occhi, il profumo, il gusto dell'assaggio, poi l'appetito saziato… sono tutte sensazioni estremamente piacevoli.
- Cibo come rituale. L'attenzione nel preparare la tavola, per sé e per gli altri, la disposizione delle cose e dei piatti, la cura nel cucinare i propri piatti preferiti, o quelli delle persone a noi care... momenti preziosi, da ritagliarsi come antidoto alla frenesia dei tempi d'oggi, e da pensare come gesti per prendersi cura di sé.
- Cibo come coccola. Stupendi manicaretti, il cioccolato, il cognac dopo pasto... Sono attimi preziosi che dedichiamo a noi stessi, quasi come una carezza.
- Cibo come atto sensuale. Il miglior preliminare all'intimità? Una cena! Con tutti gli ingredienti giusti: l'atmosfera, i sapori, i gesti... e l'amore.